Aldo Norsa
Nel solco dell’insegnamento che la nostra generazione di architetti ha ricevuto (e in alcuni casi impartito) come reazione (ovviamente colta) al Movimento Moderno e al connesso ‘funzionalismo/razionalismo’ si muovono molti dei più apprezzati progettisti italiani che si misurano con i grandi temi che segnano il territorio. Essi hanno introiettato la parola d’ordine che per intervenire significativamente nelle città si debba valorizzare il binomio ‘tipologia architettonica - morfologia urbana’ e oggi sono sempre più impegnati nell’adeguamento/aggiornamento di questa impostazione, culturale e operativa al contempo. Affinché questo approccio, dalla scala architettonica all’urbanistica, incontri le esigenze dei committenti il progetto deve nutrirsi di un’ipotesi il più comprensiva possibile di rigenerazione urbana a completamento e a contorno del progetto, pena il rischio di punteggiare le città di ‘prove di architettura’ avulse dal contesto socio-culturale, una sorta di ‘macchine celibi’ nella famosa definizione di Marcel Duchamp ripresa come titolo della Biennale di Venezia del 1975. Con una conseguente cacofonia più adatta ad alcune città mondiali che hanno i ‘soldi’ ma non la ‘cultura’. Quali esempi (ovviamente rivisitati a arricchiti) di questo approccio culturale possono illustrare la recente esperienza progettuale di alcuni tra i nostri architetti/ingegneri più sensibili al tema?
Open Project
Francesco Conserva
L'esperienza emiliana della rigenerazione urbana affonda le radici nella sperimentazione urbanistica condotta, a partire dagli anni ’70, da figure come Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati. Ideatori e fautori di esperienze politiche e urbanistiche che hanno contribuito a creare un modus operandi nella e per la città, promotori di un riformismo attento ai temi della salvaguardia e della vivibilità urbana.
La conoscenza scientifica delle tipologie promossa da Adolfo Cesare Dell’Acqua ha anche portato a formulare ipotesi di recupero edilizio secondo processi compatibili con tecnologie e obiettivi di sostenibilità energetica e sismica ante litteram. Oggi queste basi culturali si evolvono integrandosi a concetti di rigenerazione urbana che vedono nel sociale il principale fattore di innovazione. Si sviluppano processi sempre più comprensivi (si ristruttura la ‘fabbrica’ e si rigenera il luogo) e sempre più connessi alla capacità di essere placemaker, secondo la definizione di Elena Granata, ossia in grado di trasformare con successo il luogo del progetto.
Open Project si caratterizza per una progettazione non autoriale ma in costante ascolto pluridisciplinare. Il nostro progetto più ambizioso è il landmark urbano di Bologna: un polo direzionale con quattro corpi di fabbrica su cui svetta la torre UnipolSai (alta 125 m) costruita nel 2012 su un’ex-area industriale il cui cambio di destinazione d’uso e riqualificazione dura ormai da un ventennio.
La torre, certificata LEED© Gold NC2.2, è ambiziosa su più fronti: consumo energetico, comfort, qualità architettonica. Inoltre si apre al pubblico per l’inserimento agli ultimi piani del museo d’impresa Cubo. Inoltre, grazie all’interramento della linea ferroviaria metropolitana e alla realizzazione di connessioni ciclopedonali, si sta trasformando la percezione del luogo da industriale a cittadino con prospettive di nuovi insediamenti di qualità.
Un altro progetto riguarda un parco urbano nell’area dell’ex-Mercato del Bestiame a Modena, su una superficie di 7.500 metri quadrati, attualmente spazi interstiziali tra gli edifici. La proposta di Open Project vuole ribaltare questa visione definendo un connecting ground, sorta di ‘linfa verde’ che si espande organicamente nell’intera area oggetto di rigenerazione. Un gesto progettuale su diverse scale che stabilisce e regola le connessioni urbane, definisce le relazioni funzionali e accoglie centri di interesse e catalizzatori sociali per un parco, infrastruttura verde inclusiva.
L’area del polo direzionale di Bologna con la torre Unipol di Open Project (2012).
Ph. Gianni de Giorgio